Instagram d’estate fa schifo.


Instagram d’estate fa schifo. I miei contatti sono tutti al mare. O in montagna. Sorridono singolarmente. Sorridono in coppia. Sorridono sempre. Non hanno problemi. Sono stra felici. Se la loro felicità non fosse una costante statistica, potrei anche prenderla per buona.
Instagram anche d’inverno, ad essere onesti, fa abbastanza schifo. Sono tutti felicemente nei loro caldi giacigli, con l’albero e le lucine in background. Hanno tutti dei maglioncini rossi, terrificanti. Molti addirittura li indossano in coppia, come se fosse una cosa socialmente permissibile.
Instagram mi fa schifo anche in primavera. Anche in autunno. Instagram mi fa schifo sempre, se devo essere sincero. Per questo motivo, da gennaio, l’ho cancellata dal mio telefono. Quando devo postare qualcosa (tendenzialmente la Brace Accesa, le foto con le scritte o dei video bislacchi) la riscarico, pubblico i post, mi innervosisco come una bufala in un vernissage e la ricancello.

Anche Facebook d’estate fa schifo. L’unica differenza con Instagram è che da gennaio Facebook l’ho riscaricata soltanto una volta. O due. Massimo tre.
Mentre Instragram però mi provoca una violenza indotta, provocata  dall’omologazione di massa, della felicità fittizia ed esasperante e dalla mia incapacità di staccarmi dalla fruizione di contenuti di cui non mi interessa nulla, su Facebook sono io l’artefice della mia rabbia. Per mesi e mesi, su Facebook, ho scritto cose per pura bramosia di likes. Scrivevo non per il puro piacere di scrivere bensì per verificare a quanti piaceva quello che stessi scrivendo. All’inizio lo facevo distrattamente, quasi senza accorgermene. Poi ho capito di esserci dentro fino al collo. Da gennaio quindi: ciao ciao bambina.
E poi, per dovere di cronaca, Facebook mi fa schifo anche in inverno. E in estate. E in primavera. Sempre.

Tik Tok non ce l’ho. Né voglio averlo. Come il Covid insomma.

Linkedin ce l’ho. Lo uso spesso. Lo uso troppo. Quasi due ore a settimana. Quasi sempre senza motivo. Lo uso come strascico della dipendenza di Facebook e Instagram. Mi ritrovo spesso a scrollare cose di cui non mi interessa niente. Post di persone tendenzialmente con le braccia conserte. Perchè su Linkedin hanno tutti le foto profilo con le braccia conserte? Non riesco a capacitarmene.


A parte la dipendenza da Linkedin, sulla quale credo che interverrò a breve, vivere senza social network è bellissimo. Magari solo per qualche giorno, ma è qualcosa che io consiglio a tutti. Non ci si libera dalla dipendenza dal cellulare ma lo si usa leggermente di meno. Quel poco che ti aiuta ad osservare di più.
Tra le tante cose ad esempio, osservi che in una conversazione di gruppo, seduti ad un tavolo, nessuno ormai riesce a non prendere il telefono dopo 5 minuti. Osservi che spesso colui che prende il telefono lo ha fatto per abitudine, non per una reale esigenza; dopo qualche secondo il telefono verrà rimesso al suo posto. Osservi che non è un problema soltanto della tua generazione. Succede lo stesso con le persone più grandi di te, tipo quelli che hanno l’età dei tuoi genitori. Succede lo stesso con le persone più piccole di te. Succede con tutti. Ed è abbastanza triste.

Volendo si potrebbe rincarare la dose ed entrare nel merito: della polarizzazione delle opinioni, delle informazioni non verificate (aka propaganda), della possibilità di controllo da parte di entità governative, dell’erosione collettiva della soglia dell’attenzione, della perdita, da parte degli adolescenti, della visione laterale. O di come nell’immediato, probabilmente, diverrà necessaria una sempre maggiore forma di regolazione per l’accesso alle piattaforme. Certo, si potrebbe.
Io adesso però devo verificare un attimo quanti miei amichetti stanno sorridendo in spiaggia, felici. Non credo di aver tempo e di potermi esprimere a riguardo.   

Perché faccio (Ashtanga) Yoga


Ho iniziato a fare yoga 6 anni fa. Avevo molti più capelli, molta meno barba e lo smart working era più un guilty pleasure che l’attuale: no raga, io 5 giorni a settimana in ufficio mi licenzio e denunzio tutti, ripetutamente, finche non vanno in galera.
Fu Melissa, un’ex collega, che mi disse: Giorgetti, vuoi venire a fare yoga?
Se avessi saputo che dopo 6 anni, il vezzeggiativo del mio nome sarebbe stato il cognome del ministro leghista allo sviluppo economico, avrei… Niente. Non avrei fatto niente.

Della mia prima lezione di Yoga, più di 6 anni fa, ricordo soprattutto una cosa: i culi. Era una shala molto grande, piena di donne, con una quantità di sederi e donne suadenti che facevano movimenti strani. Non ero onestamente pronto. C’erano luci soffuse e musica lounge. Ad ogni lezione mi aspettavo che Tinto Brass venisse fuori da una stanza e dicesse: Stoooooop. Ok belline. Per oggi va bene così. Domattina si attacca alle 8:30.
Questo non è mai accaduto, purtroppo.
Ho praticato in questa shala soft hard per qualche mese, dopo di che ho iniziato a fare Ashatanga Yoga.

Posso dire che la pratica dell’Ashtanga yoga, in questi 6 anni, mi ha letteralmente cambiato la vita, in meglio e mi piacerebbe spiegare il perchè.
Inizio col dire questa cosa: a parte amare i miei cari e la Juventus non c’è niente in cui sono stato così costante, come l’Ashtanga, per così tanto tempo. Ho avuto un approccio lento alla disciplina. Ho indugiato per parecchio tempo nelle lezioni guidate approdando tardi al Mysore. Ho messo in discussione, spesso, la pratica. In uno dei miei primi ritiri con Mario (forse l’unico) in un paesino sperduto sotto le Dolomiti, a pranzo, dopo la pratica, in un mare di infusi e tisane al bergamotto chiedevo dei grappini, con gli altri compagni di pratica che con occhi allibiti mi invitavano gentilmente a prendere fuoco.
Poi però ho iniziato ad abbandonarmi all’Ashtanga. Anzi, come dicono quelli bravi su Linkedin, sono stato perseverante.  

Volendo tralasciare i benefici fisici della pratica, perché scontati, l’altra cosa per cui ogni giorno ringrazio questa pratica è la possibilità di mantenere la concentrazione. Essere messi a tu per tu con  un tappettino, (provare) a non avere stimoli esterni, in questi tempi moderni, è qualcosa di impagabile. Contro il flusso dei pensieri non sempre si vince. Anzi, spesso si perde. A volte infatti, al primo saluto al sole prefiguri la riunione delle 10:00,  invece di prendere i banda pensi a a che ora prendere tuo figlio dal nido, o dopo Supta Kurmasana ripassi il numero dell’impresa edile da chiamare per tornare in chaturanga. Quando però riesci ad astrarti e a concentrarti sulle asana e sul respiro, solo sulle analisi e sul respiro, a fine pratica sei indistruttibile. Puoi affrontare di tutto, dalle avversità giornaliere alle riunioni condominiali
.
Infine , l’altra cosa per cui ringrazio lo yoga è l’importanza che assegna alla figura del maestro. Forse si fa meno caso, in quest’era di tutorial e sedicenti guru di cosa sia davvero un maestro. Attraverso la sua esperienza, il maestro ti guida, ti aiuta, ti consiglia, decide cosa farti fare e con che tempi. Al maestro ci si affida, confrontandosi, a volte facendosi consolare, ma il maestro rimane il tuo faro. È questo infatti che i miei maestri, Pinuccia (insieme a Mario, Nadia, Sandra, Lella, Laura, Jacopo e Gabriele) sono stati per me in questi anni: dei fari.

È per questo che ringrazio l’Ashtanga yoga e i miei maestri. Per aiutarmi ad essere costante, per farmi stare bene, per imparare ad essere guidato e consigliato; per dovere di cronaca dovrei ringraziarli anche per tutte le volte che mi hanno spronato a fare di più e per tutte le volte che mi hanno messo le mani sulla schiena anche quando sembrava il lago di Garda.

Concludo quindi come ho iniziato, con un inizio. Ho capito che questa pratica faceva al caso mio quando ho partecipato al primo seminario di Lino MIele, il maestro dei miei maestri. Era una classe guidata per principianti plebei. Io avevo da poco abbandonato la shala soft hard e mi aspettavo da questa nuova scuola, rigorosa e radicale, una scuola dove addirittura chiamavano le posture in sanscrito, un maestro analogo, iconicamente yogico, vagamente sanscrito.
Lino entrò quatto quatto in sala, con un passo felpato, salutò tutti e inizio a parlare:
“Molti di voi se chiedono che cos’è lo yoga. Bene! C’avete presente le sale co à musica, co è luci soffuse, le sale dove non riesci a sentì er respiro. Beh, tutto quel casino non è yoga. Dovete respirà. Dovete imparà a respirà e santivvè. Quello è lo yoga”.
 

Cosa penso quando ascolto le canzoni di Sanremo 2022


Ovunque sarai – Irama
Penso ai preti, ai vescovi, ai cardinali, ai papi, alle messe di Pasqua, alle messe di Natale, ai bettesimi, alle comunioni, alle cresime, ai matrimoni, ai funerali e tutto quello che è possibile associare alla Chiesa Cattolica, perchè questa è indubbiamente una canzone della Chiesa.

Ciao Ciao – La rappresentante di lista
Fabio è alla prima esperienza in un villaggio turistico. Lo scorso inverno ha deciso di fare l’animatore e adesso è qui, al villaggio Sole Azzurro di Cirò Marina. Gli hanno appioppato l’organizzazione dello spettacolo di fine soggiorno. Ha un’idea geniale. Si prefigura già tutta la scena. Gli ospiti del villaggio che il giorno dopo partiranno, nonni, padri, figli, animali domestici, tutti sul palco a dire Ciao Ciao. Movimento d’anca, prima a destra, poi a sinistra, movimento delle braccia a frullatore e ciao ciao. La sua non è un’idea. La sua è l’Idea.
Al capocomico non piace. Balleranno I migliori anni della nostra vita, di Renato Zero.

Tuo padre, mia madre, Lucia – Giovanni Truppi
I ragazzini della mia età che quando eravamo piccoli uscivano d’inverno, senza giubbotto.

Inverno dei fiori – Michele Bravi
Devo pagare la rata del mutuo, l’asilo del bambino, l’assicurazione della macchina, l’assicurazione della moto, le quote di partecipazione ai matrimoni di quest’estate. La Tari degli anni passati, l’iscrizione in palestra, la signora delle pulizie, le spese di condominio, Netflix, Sky, Dazn, Fastweb.

Miele – Giusy Ferreri.
Quelli che bevono il Mojito d’inverno.

Brividi – Mahmood, Blanco
Maria Giovanna è una ragazza un pò complicata. Ha 17 anni, quasi 18. Fa il Liceo Scientifico, quest’anno finalmente in presenza. È in quella fase in cui la mamma è il nemico. La mamma è un ostacolo. Tra qualche anno però tutto cambierà. Scoprirà, Maria Giovanna, che sua madre è e sarà la sua roccia. A breve ci sarà il diciottesimo di Maria Giovanna. Presso la sala ricevimenti Il Ghiottone, Maria Giovanna e sua madre Imma, chiamate con una voce suadente dal vocalist balleranno questa canzone al centro della sala, commuovendosi un pò.

Perfetta così – Aka 7even
Non ce la faccio. Davvero, non ce la faccio.

O forse sei tu – Elisa
La protagonista di un cartone animato Disney cammina su un prato innevato, molto triste, in pieno inverno. Ha ricevuto da poco una forte delusione. Credeva di riuscire nel suo obiettivo ma le è letteralmente caduto il mondo addosso.
Non bisogna disperare però. Un evento inatteso ribalterà la situazione. La nostra eroina tornerà a sorridere. Si ricongiungerà con la famiglia e finalmente potrà godere dell’amore interrotto assecondando quella stupida voglia di vivere…

Lettera al di là dal mare – Massimo Ranieri
I vecchi nelle case di riposo che affacciano sul mare. 

Insuperabile – Rkomi.
Micaela a Luigia sono amiche per la pelle. Sono sempre insieme. Si conoscono da sempre. Da qualche settimana Micaela è un pò triste dopo aver lasciato Ector, il suo fidanzatino di origine ecuadoregna. Luigia, dal canto suo invece, ha appena preso la patente.
Va a prendere la sua amica. Si mettono in macchina e per le vie del centro di Rieti, ad alta voce, cantano: Insuperabile. Per un attimo, brevissimo ed estatico, Micaela riesce a non provare rimorsi per aver lasciato Ector.

Sesso occasionale – Tananai
Non credo di farcela, neanche qui, perdonatemi.

Domenica – Achille Lauro
Cinzia lavora a casa dei signori Quagliettta da vent’anni. Ha iniziato come bambinaia. Adesso aiuta la signora Clotilde a fare le pulizie, a stirare, a rassettare la casa per occasioni speciali. È magra magra. Le si vedono le ossa delle ginocchia. Nonostante ciò ha un’energia da quindicenne.
Oggi, arrivata a casa dei signori Quaglietta: non c’è nessuno. Anche il gatto è via dal veterinario. La casa è tutta sua. È una bella sensazione. Accende la radio e mentre stira le camicie di Oronzo Quaglietta, ondeggia, ascoltando Domenica. Cinzia è contenta.

Dove si balla – Dargen D’amico
Cosimo vuole fare il dj. Non ha nessun talento. Nessuna conoscenza musicale. Nessun rudimento di ritmo e melodia, ma vuole fare il dj. Cosimo sogna la prima serata della sua vita in cui Mino Dj farà ballare tutta la pista con questo pezzo. Anche se non avverrà mai, questo è il suo sogno.

Ogni volta è così – Emma
La Michelin che fa finta di fare la direttrice d’orchestra durante la prima esibizione. In realtà nelle cuffie sta sentendo le partite della Serie B. Si vede nettamente. Non riesco a togliermela dalla testa.

Farfalle – Sangiovanni
Vito ha 7 anni ed è figlio di Enzo Redel, famiglia di giostrai da generazioni. Si sposta ogni 15 giorni, da una festa patronale all’altra. Non va a scuola. Non ha molti amici. Ha 7 anni ma è già “un ometto”. Monta e smonta le giostre come fossero lego. Ha le mani spesse. Nelle macchine da scontro di suo zio Nico, quest’estate, tutti si scontreranno, arrabbiandosi l’uno con l’altro, nonostante l’obiettivo delle macchine da scontro sia per l’appunto: scontrarsi.

Voglio amarti – Iva Zanicchi
Il vomito che mi viene se mi immagino i vecchi che fanno del sesso. Voglio amarti, con l’anima e di più… in che senso?

Ti amo non lo so dire – Noemi
Debby è il diminuitivo di Deborah. La chiamano tutti così. Da sempre. Ormai quando si presenta non dice più il suo nome dell’anagrafe, risponde: piacere Debby. La maestra di suo figlio Giosuè, di 7 anni, l’ha appena chiamata: Signora, sono Erminia, la maestra di Giosuè. Giosuè si è appena fatto la cacca addosso. Può venire a prenderlo o portargli un cambio?
Debby sfreccia in macchina, con un piccolo jeans e delle mutandine nuove in una sacchetta gialla, il cambio di Giosuè. La sua responsabile non potrà avere il documento finito prima di sera.

Tantissimo – Le Vibrazioni
Invecchiare male

Chimica – Ditonellapiaga, Donatella Rettore
Frotte di quarantenni che non si arrendono all’età e fanno ginnastica, in palestra, con un istruttore piacione/provolone.
Antonella, alza la gamba, Antonella. E due. E tre. E quattro. Eddai.

Duecentomile ore – Ana Mena.
Paolo. Agente di commercio in Molise. Ogni mattina esce di casa alle 7:30 e prende la sua Audi aziendale. Ha una routine ben precisa. Chiavi nella toppa, sigaretta accesa e telefonata ai suoi due migliori amici: Nunzio e Antonio. Oggi è una giornata speciale. Li chiama entrambi, con questa canzone in sottofondo grida ad alta voce: Sveglia dormiglioni, svegli. Ca ddò ammà fadicà…

Sei tu – Fabrizio Moro
I panettieri che aprono la serranda del loro panificio alle 4:00 del mattino. Che tra l’altro, diciamolo una volta per tutte, non è vero che aprono la serranda alle 4:00. Alzano la serranda, ok, entrano dentro e poi la richiudono. Se la riaprono la riaprono per le 6:00, le 6 :30, toh… Non vogliono mica rotture di cazzo dei netturbini, degli ubriachi, delle anime dell’Inferno, i panettieri.

Ora e qui – Yuman
Flavio è l’unico della suo gruppo che non è andato a studiare fuori. È Rimasto a Campobasso. Tanto l’università è buona… In realtà i genitori non avevano soldi per mandarlo a Bologna.

Virale – Matteo Romano
Beppe insegna storia dell’Arte al liceo classico di Assisi. È un architetto, ma qualche anno fa, quando è nato il suo piccolo Domenico ha lasciato lo studio che aveva messo su, con molti sacrifici, per provare il concorso da professore. Concorso passato al primo colpo. Spiegare Fidia e il classicismo greco per 6 mesi non era proprio la sua ispirazione, ma almeno non fa più la fame.

Apri tutte le porte – Gianni Morandi
Con tutte le donne sono tremendo, abbiamo un reef geghegeghegeghegè, stasera mi butto, stasera mi butto stasera mi butto con I vatussi altissimi negri.  

Abbi cura di te – Highsnob, Hu
Gli studenti universitari che tra una lezione e l’altra si mettono a fumare i drummini sulle scale d’emergenza.

Recensioni non richieste | 1 | Il Giovane Holden


Quando eravamo piccini, alle scuole superiori, io e il mio amico Vladimir non eravamo delle cime. Eravamo simpatici, burloni, disponibili, certo, ma non esattamente quei tipi di alunni che speri ti passino la versione di latino o greco. Anzi, a volerla dire tutta, noi eravamo quelli che la versione l’aspettavano. Sempre.

Io e Vladimir, alle superiori, facevamo solo una cosa: leggevamo. Avevamo creato una sorta di patto con i professori. Noi ci privavamo dell’agio degli ultimi banchi, evitando così di fare troppo i monellacci, ricevendo però in cambio il permesso di leggere dei libri durante le ore di lezione.  
Ora, detta così può sembrare un pò troppo radicale. Non è che leggessimo E BASTA. Facevamo anche tante altre cose. Diciamo però che una quota parte delle “ tante altre cose” era sicuramente leggere.
In quegli anni ricordo di aver letto una cifra spropositata di libri. A scuola e a casa.  Ero, come Vladimir, onnivoro. Spaziavamo dai classici della letteratura russa alla beat generation americana. E cosa succede quando leggi i classici della letteratura russa a quindici anni? La risposta è pressocchè scontata: non capisci un cazzo.  
Tra i libri letti a quindici anni c’era anche Il Giovane Holden di J.D.Salinger. E in queste vacanze di Natale, visto che ho avuto degli intoppi ai programmi stilati, ho fatto una cosa che non faccio mai. Ho riletto un libro già letto.  Il Giovane Holden, per l’appunto.

Iniziamo dicendo alcune cose su “Il Giovane Holden”.
La prima: del libro letto 19 anni fa, a 15 anni, non ricordavo niente. È stata una scoperta scioccante. Non ricordavo la trama, i personaggi principali, il prologo, lo svolgimento, l’epilogo. Niente. Quindi rileggere i libri, dopo un pò, tutto sommato è cosa buona e giusta.

La seconda: non ridevo così tanto leggendo un libro da anni. Lo scrittura del libro, giovanile, diretta (parliamo di un testo del 1951) ti mette letteralmente affianco a Holden Caulfield, un sedicenne un pò schizzzato in lotta coi suoi labirinti mentali, in una New York di fine dicembre. L’utilizzo di espressioni gergali e di una stesura molto vicina al parlato rende la lettura immediata. Inoltre, la chicca su cui ogni volta ho riso come un matto è che ogni personaggio è preceduto da un “vecchio/a”. La sorella di Holden è la vecchia Phoebe. Il professore saggio a cui Holden chiede aiuto è il vecchio Antolini. A volte sembra che il tutto sia ambientato a Bassano del Grappa e non a New York.

La terza: Il giovane Holden, a detta di tutti, è un capolavoro della letteratura americana. Non lo dico io, lo dicono tutti. Nel caso quindi doveste e voleste comprarlo, sentitevi rincuorati dal giudizio di tutti e non solo da quello di Giorgio Damato.

La quarta: la vita schiva e misantropa dell’autore, J. D. Salinger, e il successo ottenuto dopo la pubblicazione, rendono il libro un vero e proprio feticcio della cultura occidentale.

Sulla trama invece, infine, non dirò niente, altrimenti che gusto c’è a leggere il libro?

E comunque, nonostante non fosse un approccio canonico alla quotidianità scolastica, il leggere molti libri (e lo scrivere) ha fatto sì che il mio amico Vladimir al momento sia il miglior drammaturgo Under 35 in Italia. E tra l’altro, si chiama Fabrizio, non Vladimir. Ma questa è un’altra storia.
Linkino

ELSA SPINACI S2E3


LA FALSA SOLITUDINE DEL SIGNOR MARIO BELOZZI

Quando ricevi una chiamata da un numero fisso sai già che qualcosa di inopportuno sta per palesarsi. Il tuo cervello inizia a formulare delle scuse gentili e credibili per il tipo di servizio che un operatore albanese, sardo e indipendentemente dalla provenienza geografica, sottopagato, proverà a venderti.
Io utilizzo sempre l’approccio del: “La ringrazio, ma al momento abbiamo già questo tipo di servizio”, anche se mi stanno provando a vendere degli eco shuttle per partire su Marte; la ringrazio, ma l’ho appena comprato sul sito della Tesla, sa, la scorsa settimana c’erano i Saldi…

Giovedì mattina infatti, quando ho visto la chiamata che mostrava con un +02 iniziale, ero pronto a menzionare solo il tipo di fornitura di cui ero già fiero e in possesso, preparando nella mia testa il gentile rifiuto al servizio offerto. Qualcosa però si è inceppato. Dall’altra parte del telefono non c’era nessun operatore outbound. Grazie all’eco preistorica e al silenzio che è intercorso dopo il mio “pronto”, ho capito che dall’altro lato della cornetta c’era Mario Belozzi (S1-E10)

– Signor Giooorgiooo, giustoooo?
– Sì, esatto. Con chi parlo? – domanda falsa e retorica, per l’appunto.
– Ah, chee piacereeeee. Sono il signor Belozziiiiii, come staaaaa?
– Bene, bene. Lei?
– Anche ioooooo, molto beneeeee – precisava Mario Belozzi, dalla casa entrata nel Guiness dei primati come la casa con più eco in Europa. – Mi fa piacereeeee che anche lei stia beneeeee.
L’ultima volta ci eravamo sentiti con il Mario e sua moglie, la sua ghostwriter che tesseva per filo e per segno il suo discorso telefonico, per dei formali ringraziamenti. Avevamo pagato loro una bolletta e ci tenevano a ringraziarci. Credevo che anche oggi il Mario mi avesse chiamato per un servigio analogo, che avrei fatto tra l’altro con tutta la gioia del mondo.
– Signor Giorgio, la disturbooooo?
– No affatto signor Belozzi, mi dica pure.
– Guardiiiii, in realtà l’ho chiamataaaaa perché mi sentivoooo un pò solooooo
– Oh, è molto gentile da parte sua mostrarmi così tanto affetto. – considerando che tutto sommato non so neanche come sia fatto e che in vita mia le ho solo pagato una bolletta, cosa che ho pensato ma non detto – Son contento che abbia chiamato per me.
– È un piacereeee signor Giorgiooooo. È che l’altra volta al telefono mi ha fattooooo una buona impressioneeee. Cosììììì, visto che mia moglie è uscitaaaaa a fare la spesaaaaa, mia figlia a Casertaaaaa non mi risponde maiiii, mio nipoteeee ha dettoooo che stavaaa facendo lezioneeee su Interneeet, a quel punto mi sono dettoooo: quasi quasiiii chiamo il mio vicinoooo.
– Ha fatto benissimo signor Belozzi. Davvero. È un bellissimo gesto.

Insomma, si era creato un feeling inaspettato, un’empatia artificiosa ma naturale. Quasi da nonno a nipote. Poi però ad un certo punto si è palesato un rumore. Si è sentito un gracchiare prolungato seguito da un tonfo. Una porta, poco oliata, che nella caverna del signor Belozzi ha prodotto una vera e propria deflagrazione.
– Signor Giorgioooo, mi scusi è arrivata mia moglie – si è interrotto guardingo il signor Belozzi, quasi sussurrando.
– Mariooooooo, con chi stai parlandoooo?
– Mi sa che dobbiamo chiudere signor Giorgio…. Marisaaaaaa, è unoooo delle televenditeeee al telefono. Gli ho dettooooo però che non sonooo interessatoooo.
– Signor Belozzi, ma come…?
Tu tu tu tu tu tu tu tu tu tu tu…
Mario Belozzi ha riattaccato e mi ha chiuso il telefono in faccia.

È finita così. Scaricato, come il peggiore dei venditori di trading online, da un vecchietto di origine campane che non ho mai visto in volto. D’altronde si sa: l’outbound dà, l’outbound toglie.

ELSA SPINACI – S2E1


BABBO LEGHISTA

Durante la vita di prima mi capitava spesso di prendere l’ascensore con il Babbo leghista. Lo chiamavo così non perché andasse regolarmente sul sacro suolo di Pontida. Lo chiamavo Babbo leghista perché padre di due figlie e perché nell’angusto spazio dell’ascensore che ci conduceva nei rispettivi immobili, mostrava un atteggiamento “un po’ leghista”. Quella malcelata diffidenza, mista ad un’espressione facciale condita con del robusto fastidio latente, tipica degli elettori e dei politici leghisti. Spesso, in questi tragitti, i suoi occhi chiari, coperti da lenti color panna mi dicevano inequivocabilmente: non mi piace la tua barba, non mi piace il tono amichevole che mostri durante questi 3 piani di ascensore, non sono affatto convinto che tu, ragazzo barbuto e meridionale sia una risorsa fruttuosa per questo condominio.

Questa era l’impressione che dava a me. Magari però fraintendevo. Forse il suo sguardo torvo era sola timida curiosità. Vai a sapere…

Il Babbo leghista in ogni caso ha 2 bambini. Bellissimi. Sembrano delle linci di montagna. Hanno degli occhi chiarissimi, affusolati e il loro colorito olivastro dona loro un aspetto esotico. Devono aver preso tutto dalla mamma, visto che il loro babbo leghista ha le fattezze di una caciotta. Non fa nulla tra l’altro per non sembrare una caciotta. Veste volutamente larghetto e i suoi abiti sembrano quel tipo di plastichina che avvolge i latticini nel reparto formaggi della grande distribuzione. La sua somiglianza ad una caciotta mi ha a lungo tenuto interrogato sull’effettivo nome da attribuirgli, se Babbo leghista o Babbo Caciotta. Ha prevalso la prima, essendo la sua attitudine leghista più spiccata di quella casearia.

I bellissimi figli di Babbo Leghista vengono portati “fuori” giornalmente. Fuori in questo caso è inteso come: lo spazio dei box, che danno sulla finestra dove pratico da due mesi lo smart-working e un cortiletto interno, che affaccia sul terrazzo della cucina, dove abitualmente mangio.
I bimbi bellissimi di Babbo leghista quindi sono sempre con me. Sono con me quando lavoro, impegnati in giretti sulle biciclettine nei box; sono con me quando mangio, a scoprire le meraviglie della natura nel cortiletto interno. Carla e Amedeo, bambini bellissimi del Babbo leghista, tanto son belli, tanto frantumano la minchia. Anche qui, ho meditato a lungo sull’utilizzo di un’espressione così greve e anche qui, dopo un’accurata analisi S.W.A.T. ho scelto volutamente questo tipo di espressione. Perché i bambini bellissimi del Babbo leghista, non danno fastidio. Non sono esuberanti. Non sono vivaci e/o necessitano di evadere l’immobilismo domestico forzoso. No, Carla e Amedeo, frantumano la minchia. Le cose vanno dette per come sono.

Se esistesse un prontuario scientifico per esasperazione indotta, Carla e Amedeo sarebbero magnifici rettori. Gli studenti penderebbero dalle loro labbra mentre spiegano le tattiche di esaurimento condomini attuate dall’inizio di questa domiciliazione forzata. Le vado ad elencare qui di seguito, per futura e comune memoria.

PRIMA REGOLA DEL MANUALE ESAURIMENTO CONDOMINI: nominare senza sosta durante la permanenza all’esterno il nome del genitore munito di vezzeggiativo: papinooopapinoopapinoopaponeepaponeepapinoo guarda, guarda, guarda, guarda, papino guarda; o al contempo, quando necessario mamminaamamminaamamminaamamminaa vedi, vedi, vedi, mammina vedi.
SECONDA REGOLA DEL MANUALE ESAURIMENTO CONDOMINI: pronunciare qualsiasi cosa con toni di voce da soprano. Delle petulanti ed ininterrotte vocine stridule che distruggono qualsiasi altro tipo di pensiero e riflessione circostante.

TERZA REGOLA DEL MANUALE ESAURIMENTO CONDOMINI: indurre una risposta di approvazione da parte del Babbo leghista (o al contempo dalla mamma), i quali martoriati dalle richieste della prole intervallano i papinoopapinoopapone vs mamminaamamminaamamminaa con dei cadenzati: sì Carla, sì Amedeo, si Carly, sì Ame, dando quindi un risultato finale del tipo : papinooopapinoopapinoo sì Carla, paponeepaponeepapinoo sì Ame, guarda, guarda, guarda, guarda, sì guardo.

QUARTA REGOLA DEL MANUALE ESAURIMENTO CONDOMINI: soffrire e piangere come durante un’amputazione di un arto non appena viene pronunziata la seguente espressione: “bambini dai, saliamo”. Piangere insieme, per molto tempo, disperati, fino a quando non si è entrati in casa. Per circa 8 minuti quindi.

Tutti in questi giorni si chiedono come sarà la nostra vita una volta sconfitto il virus. Se torneremo a vivere come se nulla fosse accaduto. Tutti discutono i modelli comportamentali che ci hanno accompagnato fino ad ora. Andranno cambiati o rimarranno gli stessi? L’unica cosa su cui io invece mi arrovello da giorni invece è se in uno dei prossimi viaggi in ascensore avrò l’ardire nel pronunciare le seguenti parole:
– Babbo leghista, sappi che Carla e Amedeo sono due bambini stupendi. Fantastici. Per tutta la quarantena però hanno davvero frantumato la minchia.

ELSA SPINACI – S1E10


LA FAMIGLIA BELOZZI

Uno dei grossi rimpianti di questa quarantena è non aver conteggiato lavatrici e lavastoviglie effettuate. Da inizio lockdown dovrei essere su 50 lavastoviglie e 20 lavatrici. Almeno così sostiene la Protezione Civile. Pensavo a questi numeri, all’efficacia e alla correttezza del conteggio, a quando Borrelli li avrebbe decanati in conferenza stampa, quando Jerry, il portinaio, mi ha chiamato dall’interfono.

Son sceso in portineria e dopo parecchie indagini linguistiche sono riuscito a capire che dei vecchini del palazzo avevano chiesto se qualcuno potesse pagare loro una bolletta dell’Internet. Dal tabacchino o con il telefono magari, come fanno i giovani…
– Signor Sjoorsjo, buoi bagare tu? Eh eh. – mi ha chiesto il portinaio nel suo adorabile Jerrese.
Ho pagato la bolletta della famiglia Belozzi tramite il telefono, essendo un giovane. Ho stampato la ricevuta. Ho preso il corrispettivo del pagamento e ho inserito il resto nella busta, restituendo poi il tutto a Jerry.

Alle 15:30 il mio cellulare, giovane, ha iniziato a vibrare, mostrando una chiamata da un telefono fisso. Ero pronto a rispondere in maniera pungente all’ennesimo tentativo di retention di un operatore sardo, quando dall’altra parte del telefono ho sentito:
– Proooontoooo.
– Si, pronto?
– Lei è Giorgiooooo?
– Si, esatto. Con chi parlo?
– Ciao Giorgio. Siaaaaamo i signoriiiii Belozziiiii – mi hanno risposto probabilmente da una caverna o dall’appartamento meno ammobiliato del quartiere, a giudicare dalla quantità di eco. –
Signor Gioooorgio, volevaaaaaamo ringraziarlaaaaa per la bollettaaaaaaa.

Bene, quello che è difficile trasferire, ma ci proverò comunque, è il meccanismo comunicativo della famiglia Belozzi. Ad interfacciarsi con me, alla cornetta, c’era il signor Belozzi; ogni cosa pronunziata dal signor Belozzi però veniva suggerito dalla ferrea signora Marisa, moglie del Belozzi. La cosa straordinaria è che i due, marito e moglie, non hanno mai avuto percezione che questo loro dialogo interno fosse in realtà perfettamente udibile.
La telefonata infatti è stata più o meno questa:

– Digli che è stato gentile – Marisa Belozzi dice a suo marito, “bisbigliando”
– È staaaatoooo mooolto gentileeeee signor Giorgioooo – il Signor Belozzi dice a me, con ingenti dosi di eco.
– Si figuri signor Belozzi. È stato un piacere.

– Digli che è stato gentile!
– Gliel’ho detto Marisa. Gliel’ho già detto…
– Allora digli che ci dobbiamo conoscere e rendere la gentilezza ricevuta.
– Signor Giorgioooo, noiiii non ciiii conosciamoooooo. Non ciiii conosciamoooo ancoraaaaaa – sempre il signor Belozzi dalla caverna – pensi, non sappiamoooo nemmenoooo in che pianooo abitiamoooo. Quando tuttooo questooo sarà finitoooo però vorremmo ringraziarlaaaa di personaaaa.

– Digli che magari possiamo offrirgli delle torte o del the.
– Signor Giorgioooo, magari quando tutti staremo beneeeee potremo offrirvi della cioccolataaaaaaa.
– Mario, dovevi dire il the, o delle torte, perché hai detto la cioccolata?
– Marisa, stai zitta un attimo, Marisa!
– Che ne diceeeeee signor Giorgioooooooo?
È dopo questa proposta che ho iniziato a vacillare. Bisognava rispondere con un sì alla cioccolata del signor Belozzi o alla proposta originaria di torte di sua moglie? Ci ho pensato su parecchio, 3 secondi forse. Quando però è arrivato l’ultima trasmissione dell’eco originaria, ho risposto:
– Signor Belozzi, le ripeto, è stato una grande gioia potervi dare una mano. Accetto volentieri l’invito e non esitate a contattarmi nuovamente per delle commissioni del genere – un po’ thankyou page post acquisto di un ecommerce, ma abbastanza svizzero da evitare dissidi nella coppia.
– Va bene signor Giorgiooooo. Graaaazieeeee. Graaaazieeeee. Graaaazieeeee. Graaaazieeeee.

Si è conclusa così la chiamata. Con un eco infinito di grazie. E un pareggiamento delle bollette nel faldone di casa Belozzi. Anche loro, nella casa dell’eco, potranno tornare a fare lavatrici e lavastoviglie senza sosta. Sembra poco ma in realtà sò soddisfazioni.

ELSA SPINACI – S1 E9


IL NIPOTINO GIANCARLO

È da qualche giorno ormai che Elsa Spinaci, giovinastra ottantenne del mio condominio, ha inserito la mascherina nel daily-street outfit. La indossa sempre. Ligia alle disposizioni regionali. Quando scende per buttare l’umido, quando va a fare la spesa, quando Jerry, in portineria, le consegna Famiglia Cristiana. La indossa anche in casa. Ogni tanto la vedo sul balcone, un piano sopra il mio, a scrutare il cielo inerte, con la mascherina.
– Sa, signor Giorgio, le precauzioni non sono mai troppe – mi ha detto l’altro giorno, quasi a volersi giustificare per l’eccesso di zelo.
Suo marito Attilio invece, u chin d merd: niente. Non la indossa mai. Ne è sempre sprovvisto. Quando lo incrocio in condominio, claudicante e in affanno, è sempre smascherato. Ma d’altronde, cosa ci si può aspettare da nu chin d merd? Questa pandemia ci sta insegnando tanto sulla resilienza, sulla forza di volontà, sulla tenacia e la fratellanza disinteressata. Ci sta però anche sensibilizzando verso un sano disprezzo per i vecchi di merda. Basta pietas e buonismo per questa categoria sopravvalutata. Va detto: Attilio Spinaci è degno di rappresentante di questa categoria. Quindi nei suoi confronti solo estremo realismo: Attilio, sei nu chin d merd. Ecco!

Incrocio Elsa in ascensore. Il nostro luogo del cuore. La scatola meccanica in cui condividiamo confessioni, segreti e microbi. Come ogni losca storia d’amore che si rispetti.
– Signor Giorgio, oggi è una giornata speciale.
– Perché Elsa? – rispondo così, un po’ sfrontato. Senza nemmeno darle del “lei”.
– Beh, per due motivi. La prima è che domani è Pasqua. Ah, a proposito… ha ripreso a credere in Dio?
– Inizio a maggio. Glielo prometto.
– Bene. Dicevamo, il primo perché domani è Pasqua e il Signore Iddio risorgerà e magari sconfiggerà anche il virius.
– Certo…
– Il secondo è perché finalmente verrà a trovarmi mio nipote Giancarlo.
– Ah! Che meraviglia. Suo nipote Giancarlo. – rispondo, cercando di scordare i concetti di distanziamento sociale e le esortazioni pubbliche all’isolamento domiciliare.

A questo punto le porte dell’ascensore si aprono, tuttavia l’isolamento forzato, il palese amore di una nonna verso il nipote o chissà quale allineamento cosmico mi tengono attaccato al Elsa, che di suo nipote vuole raccontarmi: tutto. Ripeto: tutto.
– Ha sedici anni. Frequenta il liceo scientifico Einstein. Suona il pianoforte. La sua fidanzata si chiama Emma. È una ragazzina molto bella. Anche di buona famiglia. Gioca a tennis, no Emma, mio nipote dico, Giancarlo. Ha dei capelli biondi, corti e degli occhi verdi.
– Signora Elsa…
– A scuola prende ottimi voti. Ha una passione per la matematica, in particolare per l’algebra. A detta di suo padre e sua madre, che è mia figlia, dovrebbe prendere gli stessi studi del nonno Attilio (u chin d merd) in ingengneria magari…
– Signora…
– Magari non proprio in ingegnera edile, ma in un’altra branca. Oggigiorno, mi diceva mio marito Attilio (u chin d merd) vi sono parecchie specializzazioni in ingegneria, infatti…
– SIGNORA SPINACI! Deve lasciare la portiera dell’ascensore. Altrimenti nessuno può chiamarlo.
– Ah! Ha ragione. Che sciocca che sono… – nello stesso istante Elsa Spinaci molla la presa e la porta dell’ascensore, con il suo movimento volutamente diluito, si richiude su se stessa. – Va bene signor Giorgio, la lascio. Magari continuiamo la prossima volta. Ci sono ancora molte cose che vorrei raccontarle su mio nipote Giancarlo. Che ne dice?
– Signora Elsa, non vedo l’ora. Davvero. Nel frattempo però me lo saluti, insieme a suo marito Attilio e a tutto il resto della sua famiglia.
– Buona Pasqua signor Giorgio. A lei e ai suoi cari.

L’ascensore si muove verso i piani superiori. Chiamato da qualcuno che in questa vigilia pasquale, di Giancarlo, delfino di Elsa Spinaci, giovinastra ottantenne del mio condominio, non sa ancora nulla.

ELSA SPINACI S1E8


GERRY

Non è che i rapporti tra di noi fossero iniziati in maniera pacifica. Anzi…
– Oberai rotto muro. Voi bagare. Adesso. – Sei parole d’accusa e nessuna possibilità di replica. Queste le frasi di benvenuto ricevute da Jerry, il nostro portinaio con la collezione di gilet più vasta del globo.
È col passare del tempo che le cose sono migliorate, stabilizzandosi su una linea amicale tendente all’idilliaco. Ogni giorno, da qualche mese ormai, è un tripudio di: Eh eh signor Sjoorgio, come va? Eh eh signor Sjoorgio è arrivata lettera. Tutto rigorosamente in una lingua particolare. Nella lingua di Gerry.

– Eh eh signor Sjoorgio, buonjorno. Sai cosa mio figlio fatto ieri?
– Ciao Gerry, buongiorno. No, che è successo?
– Una sciallenj?
– Una che?
– Sciallenj, signor Sjoorgio, come si dice? Sfida… Sciallenj.
– Ah certo Jerry. Una challenge… E in cosa consisteva questa challenge?
– Dobbiamo fare gabriola su letto e poi dobbiamo dire una frase.
– Cioè?
– Chi è cioè?
– No Gerry, volevo dire, cosa dovete pronunciare? Qual è la frase che dovete dire?
– Ahhh, ho capito. Eh eh. Una frase in arabo.
– Sì, ho capito anche quello, che frase?
– Man yafeal alshaqlubat ladayh quat al’asad warashaqat alfahd
– Che in italiano significa?
– Significa: chi fa la gabriola ha forza di leone e agilità di ghepardo.
– Ah, bellissima. È un proverbio della tua terra?
– No. Di videogames.
– Ah ok… Ma tu Gerry l’hai fatta questa challenge? Hai fatto la capriola con tuo figlio?
– Noooo signor Sjoorgio. Io ho erni.
– Che hai?
– Dolore qui. (indicando l’addome)
– Hai l’ernia?
– Sì. Ernia. Però fatto mio figlio la sciallenj.
– Ah bene.
– Eh eh, no bene signor Sjoorgio. Mio figlio fatto gabriola e poi caduto da letto. Testa un po’ sbaccata però su youtube biaciuto un sacco. Un sacco, signor Sjoorgio. Eh eh. Molti like. Molti commenti.
– Ma scusa, lui si è spaccato la testa e poi ha caricato un video su youtube, con la testa spaccata?
– No signor Sjoorgio. No brobrio sbaccata sbaccata. Solo poco sangue. Però aveva ragione mio figlio… Lui mi ha detto: Papà, questo video un sacco di like. Questa sciallenj super famosa. E infatti, aveva ragione. Ora sciallenj super famosa. Ora lui famoso. Ora lui infuens delle sciallenj. Eh eh…
– Pazzesco Gerry.
– Eh sì signor Sjoorgio. Bazzesco.
– Salgo Jerry. Vado a pranzo.
– Ciao signor Sjoorgio. Fai anche tu la sciallenj oggi?
– No Gerry, oggi faccio la pasta al forno. Sono andato al supermercato apposta.
– Mmm… bella signor Sjoorgio. Buona. Buon branzo allora.
– Ciao Gerry buona giornata. Fai il bravo.
– Eh eh – risate compiaciute e birichine – io sempre bravo signor Sjoorgio.

Signor COVID-19: grazie degli spunti


Nonostante un’economia distrutta, degli squilibri emotivi di massa e una clausura globale, gradirei comunque ringraziare il signor Covid-19, vista la possibilità che mi ha dato di interrogarmi su 5 tematiche molto interessanti. Cercherò di elencarle tutte, ponendomi molte domande, ricevendo poche risposte.

1) LA MERCE
Partiamo da qui. Non era mai capitato ai ragazzi della nostra generazione, cresciuti nell’agio tardo capitalistico, di percepire delle lacune sul soddisfacimento di beni primari, come il cibo. Di sentirsi, come in questo periodo, minacciati sull’assenza della primissima necessità.

Come ad eccezioni di disastri naturali, io personalmente, non mi ero mai interrogato su come: fabbrica, merce, magazzini, trasporti, vendita e profitto fossero intrinsecamente connessi. E come l’assenza di un solo di questi tasselli mortificasse tutta l’impalcatura di produzione e benessere connesso.

Inoltre, quello che stiamo osservando nell’immediato è la supplenza (quando possibile) del digitale sul retail/fisico. Con una domanda implicita e costante: fino a che punto questa supplenza sarà sostenibile? Sarà necessaria una riconversione della forza lavoro? Sarà possibile assorbire tutta la domanda e convertire tutta l’offerta, tramite uno switch di canale, forzoso?

Le risposte che mi sento di dare a questa prima tranche di interrogativi è un sonoro: BOH! Questa Fase Uno prevede tante domande. Le risposte latitano. By the way, come direbbero gli amici del marketing, grazie signor Covid 19 per lo spunto.

2) LA VELOCITA’
No, non menzionerò le esaltazioni futuristiche della velocità del secolo scorso, né citerò anche solo per scherzo la purezza stilistica di Carl Lewis o l’etica del lavoro di Usain Bolt. Purtroppo.
Bensì esplicito, anche se già chiaro a tutti, che quello che sta facendo il signor COVID-19, in questo caso, è una crociata implicita sulla velocità. Sulla velocità a cui noi ci eravamo del tutto assuefatti.

È tutto più lento. È lenta la nostra vita (forzata in mura domestiche). E’ lento il riprendere della socialità (la quarantena per molti sta diventando fattuale, di 40 giorni).
Quello che personalmente mi chiedo, sorprendendomi per l’originalità della domanda, visti i tempi è:
a) sarà possibile riprendere la vita alla velocità a cui eravamo abituati?
b) se non proprio alla velocità di prima (2020) ed escludendo la velocita di “prima pima prima” (anni ‘50), sarà necessario ritornare alla velocità di “prima”, del 2010 ad esempio? La vita ai tempi dei trilli MSN Messanger?
c) Se no (come pochi si augurano) che impatto avrà questa riduzione sulla produzione della merce?
d) Se si: volemose bene! Problema risolto.

Può sembrare che sia ossessionato dal ruolo della merce, e forse lo sono. La mia però non vuole essere un’analisi e una visione marxita del problema. Credo però che merce (intesa anche come servizi), velocità e produzione, da settant’anni a questa parte, siano l’ossatura della nostra società.
Abbonatemi perciò il particolare focus sul tema.

3) L’INDIVIDUALISMO E LA COLLETTIVITA’
Anche in questo caso, siamo stati forgiati sul culto dell’individualità e sul valore delle libertà (astenersi ovviamente cittadini di regimi autoritari).

Non fa sorridere come la soluzione ai problemi collettivi, nell’era del signor Covid-19, potrà realizzarsi solo tramite un esercizio di azioni “collettive”? Restate a casa. Non solo io, non solo tu, non solo mio cugino: tutti. Se io, tu e mio cugino, continueranno ad anteporre le proprie partite di curling o le visite dall’otorinolaringoiatra per controlli di routine, tutti, la collettività, potrà riprendere la propria vita tra qualche anno, non tra qualche mese. Questa rivincita dell’obbligo collettivo sul predominio culturale dell’individualità, a me un po’ fa sorridere.

Anche l’espressione (e la comunicazione) dell’individualità sta patendo le angherie di una collettività imposta. Io, anche se tappato in casa, sono libero di fare torte, di fare yoga su Zoom, di fare allenamenti per gli addominali, di fare challenges. In maniera molto originale e in contemporanea con tutto il mondo. Distanti ma vicini, certo, ma ancor più: da soli ma insieme. Un’individualità talmente collettiva che si omologa e diventa collettiva.

E infine, nonostante il ruolo dell’individuo e il culto della libertà, cosa bramiamo maggiormente nelle nostre splendide casette isolate (e in maniera ancora maggiore adesso, con l’avvicinarsi delle feste pasquali)?
Vogliamo stare insieme. Diciamocelo. Non è peccato. Vogliamo sentirci meno soli. Perché siamo animali sociali. Siamo una somma di individualità che formano un collettivo. Volente o nolente.

Ah, io la cosa che bramo maggiormente è farmi un giro in bici, di sera, con la brezzolina primaverile. Ma questo è un altro discorso…

4) CITTA’ – STATO – NAZIONE
In merito ho sentito delle riflessioni interessanti da parte di qualche mente leggermente più scaltra della mia. Zizek, Baricco e Cacciari, solo per citarne tre.
Il dato che è emerso con maggiore forza, uno dei tanti, certo, è che il signor Covid-19 ha contribuito a fare in pezzi con una certa facilità è il concetto di confine. Il virus non ha guardato in faccia a bianchi e neri, a tesserati o non tesserati, a baresi o leccesi. Il virus è stato democratico. Ha avuto pensieri mortiferi per tutti. Senza alcuna distinzione. Mettendo in luce, ancora una volta, come le distinzioni di specie, razza e territorio, sono accomodamenti concettuali, a volte utilitaristici.
La sua essenza democratica e volatile ha messo in luce allo stesso tempo:
– l’impossibilità del non perseguire intenti ed accordi globali e attuarli su scala locale (se le nazioni avessero seguito il modello cinese (entità globale) probabilmente gli effetti su Codogno o le valli bergamasche (entità locali) sarebbero stati decisamente minori.
– l’impossibilità di privilegiare e coltivare solo gli aspetti positivi e e/o finanaziari del capitalismo, senza pensare che ricadute negative (sanitarie) possano essere figlie della stessa globalità.
Prendendo come esempio le mascherine (punto 1) bene merceologico cardine di questo periodo storico: se fossero state prodotte e smerciate su scala globale (punto 4) con una velocità necessaria all’occasione (punto 2), gli impatti sarebbero stati decisamente minori su tutti gli individui (punto 3).

E comunque, vista la ricorsività degli impatti del Signor Covid-19 su merce e produzione e velocità, mi inizio a chiedere se non sia proprio il modello capitalistico, fondato su questi due cardini, a dover essere un attimo ripensato.

5) FUTURO
Tra i beni di consumo più venduti, oltre al cibo, all’amuchina e le mascherine, le fonti ufficiali non rivelano il più strambo: le sfere di cristallo. Dopo averle acquistate, siamo tutti da settimane ad interrogarle, cercando di capire che tipo di futuro ci troveremo a vivere.
Quando torneremo ad avere una vita normale? Il virus ritornerà? Chi si è ammalato in questo periodo, potrà riammalarsi? Si potrà tornare a viaggiare? Si potranno rivivere senza patemi gli spazi sociali collettivi?
Mi piacerebbe poter dare una risposta netta ad ognuna di queste domande.
Considerando però che sui quattro punti precedenti non ho un quantitativo considerevole di risposte e che la sfera di cristallo non mi è ancora stata consegnata, temo dovremo aggiornarci tra qualche mese.

Se possibile, senza il signor Covid-19, che ci ha tanto aiutato a porci delle domande, senza dubbio, ma che allo stesso tempo, scusate il francesismo, ha rotto il ca**o.

Mi raccomando, fate i bravi e leggete questo articolo rigorosamente da casa.